Mangiare e bere, in Romagna, è una cosa seria. A volte è fonte di divergenze (la “vera” piadina è alta o bassa?) ma, molto più spesso, sedersi a una tavola romagnola crea unione e buonumore. Ed è un piacere che non si esaurisce al palato: ci sono storie ed episodi curiosi che rendono ancora più succulenta la tradizione enogastronomica della Romagna.
Alcuni di questi aneddoti sono storicamente conclamati, altri sfociano nel mito e nella leggenda. Quale che sia la loro origine, possiamo garantirvi che vi faranno venire fame!
Perché il Sangiovese si chiama così?
Il Sangiovese è il re indiscusso dei vitigni nostrani. Di origine antichissima, probabilmente trapiantato in Romagna dagli Etruschi, prende il suo nome dal latino: “Sanguis Jovis”. Ossia il Sangue di Giove.
Eh sì, il colore rosso rubino di questo vino, così vivido e potente, bene si associava al padre di tutti gli dei dell’Olimpo.
Si narra che fu un monaco cappuccino del convento di Santarcangelo di Romagna, proprio nei pressi del monte Giove, a dare la prima testimonianza ufficiale di questo nome.
Era il 1828 e Papa Leone XII si era recato in visita presso i monaci: era rimasto così colpito dalla bontà di quel nettare rubicondo appena degustato, che volle conoscerne l’etimologia. Soprassedé volentieri, ne siamo certi, agli echi pagani che quel nome portava con sé.
L’Albana: una delizia da bere in coppe dorate
L’Albana è un’eccellenza a volte sottovalutata del nostro territorio: pensate che è stato il primo vino bianco italiano a ricevere (nel 1987) il riconoscimento DOCG, Denominazione d’Origine Controllata e Garantita.
Ma dobbiamo tornare indietro nel tempo fino al V secolo D.C. per scoprire la storia migliore di sempre sull’Albana.
La pia Galla Placidia, imperatrice romana figlia dell’imperatore Teodosio I, stava cavalcando incessantemente da ore, quando giunse in un villaggio locale, sulle pendici delle prime colline dell’Appennino forlivese.
La popolazione l’accolse festante e, per darle ristoro, le porse una semplice coppa, ricolma di vino bianco: era proprio Albana, frutto dei delicati vitigni di quei colli.
Quando l’imperatrice ebbe assaggiato quel fresco nettare, colpita da tanta delizia, ne decantò così le lodi: “Converrebbe… berti in oro”.
E da quel giorno, quel ridente villaggio tanto devoto al vino porta proprio quel nome: Bertinoro.
La piadina romagnola alla corte dei Sette Re
La piadina romagnola ha infinite varianti: più alta, più schiacciata, con lo strutto, con l’olio, con il miele, con il latte, e chi più ne ha più ne metta. Ognuno ha la sua versione preferita, quella ritenuta “la vera piadina” a suo insindacabile giudizio.
Ciò che è certo è che quel pane schiacciato, così tipico del nostro territorio, veniva già cotto su teglie di terracotta dai centurioni romani, che attraversarono la Romagna dapprima come terra di conquista e poi come dimora per gli anni del congedo.
Le focacce del resto erano tra i cibi più diffusi nell’antica Roma, preparate per lo più con acqua e orzo o farro. Anche il poeta Gianni Pascoli ha parlato del “pane rude di Roma” definendolo “pane di Enea”: l’assonanza con “piadina” è discreta ma c’è.
Insomma, alta o bassa che sia, ogni volta che la farcite con crudo o squaquarone pensate che quella stessa meraviglia culinaria (o una sua antenata molto prossima) è stata gustata anche da Virgilio e Giulio Cesare!
Gli strozzapreti: un nome che è tutto un programma
Veniamo ai primi. Tra i più sfiziosi e minacciosi (almeno, nel nome) ci sono gli strozzapreti: cordoncini fatti a mano con acqua e farina. Come i loro cugini alla lontana, gli ingannapreti (una sorta di cappelletti senza ripieno), gli strozzapreti vengono chiamati così in nome di uno spirito anticlericale che si diffuse in modo capillare in gran parte della Romagna.
Dopo la caduta dell’Esarcato Bizantino, infatti, la Romagna fu annessa allo Stato Pontificio e vi rimase legata per molti secoli, quasi ininterrottamente fino all’annessione al Regno d’Italia avvenuta il 13 giugno 1859. Un “vassallaggio” territoriale che significava tasse, imposte e vessazioni che i romagnoli dovevano versare agli esattori della Chiesa di Roma.
E così arriviamo agli strozzapreti: un primo piatto romagnolo “povero”, confacente alle tasche svuotate di una popolazione allo stremo e battezzato con un nome didascalico, che suonava quasi come una promessa o come un vivido desiderio.
Tortellini vs Cappelletti: la Civil War della Via Emilia
Il ripieno del cappelletto romagnolo è fatto di formaggio morbido, su questo non si transige, e un pizzico di noce moscata. Quello del tortellino bolognese invece è a base di carne di maiale. Una biforcazione antica, che sorprende gli ignari turisti ma è causa di efferati contrasti tra i buongustai autoctoni.
La “battaglia del ripieno” risale al VI secolo dopo Cristo. In quell’epoca, Ravenna fu capitale dell’Esarcato bizantino e di quell’impero assorbì l’arte, i costumi… e anche le abitudini culinarie. Per esempio, la preferenza verso i prodotti ovini o caseari rispetto alla carne di maiale.
I maiali, infatti, erano allevati tipicamente dalle popolazioni barbariche che provenivano dal Nord ed ebbero molta difficoltà a raggiungere le coste marittime. Proliferarono dunque nelle zone collinari, non lontano dall’area emiliana che era già occupata dai Longobardi.
Per lo stesso motivo, nell’entroterra non era affatto apprezzato il castrato (e per molti emiliani è ancora così): un taglio di carne invece molto diffuso nell’area ravennate e presso molte culture del bacino mediterraneo sud-orientale.
Ed ecco spiegata, geograficamente e storicamente, una rivalità culinaria che è ben lontana dall’essersi placata.
La Zuppa Inglese: non è zuppa e non è inglese
Uno dei dessert più noti e controversi di casa nostra è la zuppa inglese. Perché si chiama così, se è nata in Romagna? Colpa del signor George Gordon Byron, noto ai più come Lord Byron: uno dei più celebri poeti inglesi dell’Ottocento. In un suo soggiorno in Romagna, tra il 1819 e il 1821, egli dimorò presso la Fattoria Guiccioli di Mandriole, una casa colonica che si trova a metà strada tra Casalborsetti e Sant’Alberto, divenuta poi celebre perché nel 1849 vi morì Anita Garibaldi.
Ma torniamo a Lord Byron: quando il poeta chiese un dolce, il cuoco della magione aveva a disposizione solo avanzi. Prese allora a mescolare pan di Spagna, alchermes, crema all’uovo e cioccolato e porse il composto all’ospite straniero. Lord Byron ne fu entusiasta e chiese immediatamente il nome del dessert: il cuoco, per non ammettere di aver arrabattato tutto alla bell’e meglio, si inventò di aver creato quella delizia appositamente per il poeta: il suo nome era, per l’appunto, “sopa inglèsa”.
Forse è solo una leggenda, ma ricalca bene le risorse tipiche dei romagnoli, quando sono alle strette: inventiva, creatività, mestiere… e un’irresistibile faccia tosta!