Di granoturco e baci rubati: cos’è stata la sfujareja in Romagna
Passeggiando tra le tante sagre della Romagna da settembre in avanti è facile imbattersi in venditori ambulanti di pannocchie, da gustare calde un morso dopo l’altro. È un alimento tipico del territorio… ma non così tipico, almeno non quanto in altre zone d’Italia. Eppure anche in Romagna ci sono usi e tradizioni legate al granoturco che vale davvero la pena riscoprire.
Il granoturco in Romagna
In Romagna il granoturco (chiamato e’ furminton) non ha mai avuto l’importanza che ha rivestito in altre regioni italiane. A nord del Po, per esempio, sotto forma di polenta è stato l’alimento principale, se non l’unico, degli strati più bassi della popolazione.
Pur non essendo una coltura dominante, in Romagna il granoturco entrava comunque nella rotazione agraria del frumento assieme alle barbabietole (al biédal) e all’erba medica (la spagnera). Di solito era destinato al bestiame: la polenta gialla non ha mai avuto un ruolo predominante nell’alimentazione dei nostri contadini.
La raccolta delle pannocchie
La raccolta avveniva normalmente fra l’ultima settimana d’agosto e le prime due di settembre. In precedenza i contadini avevano provveduto a tagliare le cime ancora verdi (al vett) delle piante, sopra la pannocchia (la panocia), e in seguito anche le foglie: le une e le altre erano destinate all’alimentazione dei bovini.
Le pannocchie venivano staccate a mano e ammucchiate sull’aia. Era qui che avveniva una ciclica lavorazione manuale, nonché momento sociale per eccellenza: la sfujareja o spanuceda, ovvero la sfogliatura del granoturco.
La sfujareja: la sfogliatura nelle aie che non esiste più
La sfujareja avveniva sempre nello stesso modo. Sera dopo sera si disponevano a semicerchio panche o assi sulle quali sedevano donne e fanciulle del vicinato. Le sfogliatrici (al sfujadorz) eseguivano una semplice operazione, ripetitiva, che consisteva nel liberare la pannocchia dalle bràttee (e’ scartòzz), ossia quelle foglie protettive che avvolgono fiori o frutti, difendendoli dal gelo e dai parassiti.
Per fare la sfogliatura ci si aiutava con un punteruolo (e’ sfrocc) di duro legno di tamerice, che le sfogliatrici portavano legato al polso con uno spago.
Con le foglie più tenere dei cartocci si riempiva il pagliericcio (e’ pajàzz o pajon), ovvero il surrogato povero dei materassi di crine o di lana. Le foglie esterne, più dure, erano invece destinate all’alimentazione del bestiame. In pratica non c’era parte della pianta di granoturco che non fosse utilizzata.
Del granoturco non si butta via niente
Gli steli del granoturco (i malghezz o gambaron) venivano estirpati con la zappa e raccolti in fascine: si bruciavano nella “fornacella” (la furnisela) per scaldare l’acqua del bucato. Allo stesso uso erano destinati i tùtoli (i panòcc), cioè i torsoli delle pannocchie sgranate.
Per la sgranatura si usava e’ froll, uno strumento azionato a mano con il quale le pannocchie venivano sgranate una a una. Non tutti i contadini lo possedevano: come altri attrezzi, veniva prestato e passava di casa in casa al seguito della sfujareja.
Successivamente, per lavorare grandi quantità di pannocchie, venne introdotta una macchina trebbiatrice azionata da un trattore, come quella del grano. I primi modelli sgranavano le pannocchie sfogliate, quelli della generazione successiva, introdotti verso il 1950, erano in grado anche di operare la sfogliatura.
Furono queste macchine a fare scomparire nel giro di pochi anni dalle nostre campagne la sfujareja.
Tra lavoro e festa: i risvolti sociali della sfujareja (e dei “filarini”)
In un periodo nel quale il lavoro in campagna era molto duro e le opportunità di svago molto poche, quel ritrovo periodico per sgranare le pannocchie diventava una specie di festa. Alla sfujareja partecipavano infatti giovani donne che si spostavano di casa in casa tutte le sere, lavorando fin verso le undici o mezzanotte: era un’occasione unica, per i giovani innamorati, di fare la corte alle ragazze intente a spànnocchiare alla scarsa luce dei lumi a petrolio.
Alcune famiglie ingaggiavano addirittura un suonatore che con l’organetto o la fisarmonica accompagnava la sfujareja: al termine ci poteva anche scappare qualche ballo, se non qualcosa in più, fra sfogliatrici e spasimanti.
A proposito degli spasimanti: in romagnolo sono detti filaren, “filarini”. L’origine di questo termine deriva dal ‘filatoio’, lo strumento a ruota e pedale usato per filare. Il senso traslato si spiega con l’usanza da parte dei giovanotti di posizionarsi accanto alle filatrici al lavoro, proprio come i loro strumenti, con ben più romantici propositi.
Una modalità che era la stessa anche nella sfujareja… e chissà quanti ricordi di baci rubati conservano ancora le nostre campagne!