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“Sono cresciuto con il sogno dell’Italia”. La storia di Ilir, oggi presidente di una cooperativa di trasporto

La storia di Ilir Hodaj, arrivato in Italia negli anni ’90 dalle coste dell’Albania: “Se mi guardo indietro non rimpiango niente. Rifarei tutto”

Aveva 16 anni Ilir quando ha deciso insieme a due suoi amici di attraversare l’Adriatico in gommone, dalle coste dell’Albania fino a quelle della Puglia. 16 anni, nessun documento, niente soldi in tasca, ma un sogno grande da realizzare: costruirsi un futuro in Italia. 

Ilir Hodaj oggi di anni ne ha 43, vive a Faenza con sua moglie e i suoi tre figli e da 2 anni è presidente di Cape, la cooperativa faentina specializzata nel trasporto di liquidi alimentari. Questa è la sua storia.

Ilir a 16 anni hai preso una decisione molto importante e rischiosa, perché?
Io sono nato e cresciuto a Vlore (Valona). Mio padre era un fornaio e mia madre una casalinga. La vita in Albania era difficile, non dava prospettive. In quegli anni per noi albanesi l’Italia era l’America, il sogno, la terra dove avremmo potuto avere un futuro, una vita diversa. Io non vedevo l’ora di crescere per andare via, in Italia; sono cresciuto con questo sogno e questa voglia fin da quando avevo 12 anni. Lo avevo io e lo avevano tante persone.

“Andare via senza documenti vuol dire che non hai niente da perdere, sei disposto a morire, perché ti dici ‘tanto… se devo stare così’”

A costo di intraprendere un viaggio così rischioso?
Il rischio non veniva calcolato. Non calcolavi il pericolo di poter perdere la tua vita. Quando una persona arriva ad agire così vuol dire che dove sta non sta bene. Non lo fa per capriccio, per andare a dare fastidio, lo fa perché dove vive non ha futuro, non lo vede. Questo viaggio non è come prendere l’areo per andare in Germania o in Inghilterra, come accade oggi, in Italia e anche in Albania, è un altro andare via. Non prendi un mezzo sicuro, non hai il passaporto. Andare via senza documenti vuol dire che non hai niente da perdere, sei disposto a morire, perché ti dici “tanto… se devo stare così”.

Quando sento giudicare male le persone che oggi mettono in pericolo la propria vita e quella dei loro figli per intraprendere questo tipo di viaggio mi viene la pelle d’oca. Non hanno altra scelta, quella è l’unica opportunità di una vita degna che vedono per loro e per chi amano. 

foto di ragazzo giovane anni 90
Ilir Hodaj in una foto di circa 20 anni fa

Lo rifaresti?
Se mi guardo indietro non rimpiango niente. Rifarei tutto. Oggi ho una famiglia, una moglie e tre figli, una casa, un lavoro che mi soddisfa e mi piace. Sto bene. Ho costruito tanto. Oggi avrei tanto da perdere.

“Se mi guardo indietro non rimpiango niente. Rifarei tutto. Oggi ho una famiglia, una moglie e tre figli, una casa, un lavoro che mi soddisfa e mi piace. Sto bene. Ho costruito tanto. Oggi avrei tanto da perdere”.

Cos’è successo quando sei arrivato in Italia?
Io e i miei due amici siamo sbarcati in Puglia, da lì ci siamo diretti verso l’Abruzzo. Sono rimasto lì per circa un anno ma di lavoro ce n’era poco e sono ripartito. Ho raggiunto mio fratello più grande che stava a Faenza. Mi sono stabilito qui facendo vari lavori di fortuna, come muratore o a raccogliere la frutta. In molti mi hanno chiuso la porta in faccia, cacciandomi in malo modo. Mi sono sentito dire in dialetto: “Dai vai via, di giorno venite a cercare lavoro e di notte venite a rubare”.

Poi ho bussato alla porta di Egidio Dalmonte (il titolare di un importante vivaio della zona nda), era il 1998. Lui mi ha detto “Va bene, investo su di te. Investo su un giovane ragazzo”. Da quel momento ho lavorato per lui per 5 anni come giardiniere.

Che anni sono stati?
Sono stato bene. Ho vissuto un po’ a casa sua, mi aveva preso ‘sotto la sua ala’. Il lavoro mi piaceva e dopo un po’ avevo abbastanza soldi da potermi permettere un affitto, una casa. Dopo i 18 anni ho investito nel prendere le patenti come autista e alla fine del 2003 ho deciso di intraprendere la strada da camionista. Altro stipendio e altro lavoro. Volevo crescere. 

Cosa ha significato per te l’incontro con chi per primo ti ha dato un lavoro?
Prima di risponderti devo fare una premessa sulle politiche di allora riguardo i migranti. Si faceva una sanatoria ogni 4 anni o quando cambiava il governo. Le sanatorie permettevano a chi si trovava in Italia senza documenti di regolarizzare la propria posizione, a patto che si avesse un lavoro e un alloggio. Solo che cercare un lavoro regolare non era per niente facile. Io ci ho provato, come ti ho detto, ma credimi era davvero difficile superare la diffidenza e il pregiudizio della gente.

Chi ha scelto di delinquere in quegli anni, parlo degli albanesi, non lo ha fatto perché era per natura un delinquente. Non lo era prima di arrivare in Italia. Lo è diventato per bisogno. Lo è diventato perché non è riuscito a trovare qualcuno che gli desse fiducia, che gli desse un’opportunità. Io quella persona l’ho trovata: Egidio Dalmonte.

Dopo che riuscivi a regolarizzare la tua posizione tutto diventava più facile, perché avevi un documento. Senza quello dovevi sperare giorno dopo giorno di trovare un lavoro qualsiasi per poter mangiare e poter avere un tetto sopra la testa. 

“Chi ha scelto di delinquere in quegli anni, parlo degli albanesi, non lo ha fatto perché era per natura un delinquente. Non lo era prima di arrivare in Italia. Lo è diventato per bisogno. Lo è diventato perché non è riuscito a trovare qualcuno che gli desse fiducia, che gli desse un’opportunità. Io quella persona l’ho trovata: Egidio Dalmonte”.

Pensi che ci siano delle somiglianze con quello che avviene con i migranti di oggi che arrivano senza documenti qui in Italia?
Sì. Sì, è la stessa cosa. Non tutti hanno la sensibilità e la visione di Egidio, ancora oggi. Nella nostra cooperativa abbiamo deciso di credere in un lavoratore che si è presentato con una situazione precaria. Ci ha detto che non aveva mai avuto un lavoro che gli permettesse di sistemarsi. Gli abbiamo dato una possibilità. Oggi lavora con noi. Oggi vede un futuro davanti a sé e sta pensando di far arrivare in Italia anche la sua famiglia. 

gruppo di uomini davanti a camion verde, bianco e rosso

Torniamo alla tua storia, era il 2003 quando hai iniziato a lavorare come camionista, poi com’è andata?
Ho lavorato per un anno per vari ‘padroncini’ della zona (autotrasportatori che posseggono uno o più mezzi nda). Poi ho cercato di entrare nella cooperativa Cape. Pensavo che lavorare per un’impresa così stabile potesse darmi più sicurezza.

Ho chiamato un socio autotrasportatore della cooperativa per propormi come suo autista. Abbiamo parlato tanto al telefono. Io in questi anni mi ero fatto furbo (ride), avevo imparato il dialetto e quindi parlavo in romagnolo. A un certo punto al telefono mi dice “Va bene dai, lasciami il tuo nome così facciamo una prova”. Quando ha sentito il mio nome mi fa “Come? Come?”. Gli ho risposto di stare tranquillo, che non ero un ladro, che ero lì per lavorare.

Ho pensato che non mi avrebbe richiamato. E invece lo ha fatto. Mi ha proposto una prova di tre giorni e dopo quelli mi ha offerto un lavoro. Guidavo il suo camion per Cape. Ho lavorato per suo conto per tre anni. All’inizio tutti mi tenevano a distanza, dopo un po’ hanno cominciato a volermi bene. 

Nel frattempo hai ‘messo su famiglia’?
Sì. Mi sono sposato nel 2005. Mia moglie è albanese. L’ho conosciuta quando ero già in Italia ma tornavo in Albania per andare a trovare i miei genitori che vivono lì. Nel 2007 è nato il primo figlio, Riccardo, nel 2009 Isabel e poi, dopo 10 anni, nel 2019 è arrivata Iris.

Ti capita ancora di essere giudicato male perché sei albanese?
No. E anche i miei figli non hanno idea di questa roba qui.

Com’è proseguita la tua esperienza lavorativa in Cape?
Dopo che ho lavorato per tre anni con il primo socio sono passato a un altro, sempre per altri 3 anni. Poi nel 2010 ho sostenuto l’esame di abilitazione per autotrasportatore e ho potuto rilevare la licenza di un socio di Cape e diventare socio della cooperativa io stesso. Volevo lavorare in Cape perché aveva un’organizzazione del lavoro che mi permetteva di rientrare la sera a casa per stare con la mia famiglia, però volevo lavorarci senza dipendere da qualcuno, volevo decidere io per me stesso. Quindi ho comprato il mezzo del socio dimissionario e ho preso il suo posto.

Nel 2013 ho comprato il mio primo mezzo nuovo. Nel 2015 sono entrato nel consiglio di amministrazione. Mi hanno eletto perché in quegli anni hanno imparato a conoscermi. Hanno riconosciuto la mia passione, il mio senso del dovere e anche la voglia che avevo di aiutare gli altri. Mi chiamavano “il sindacalista”, perché provavo a dare una mano ai soci che faticavano con la burocrazia. Si rivolgevano a me per qualsiasi cosa. Portavo equilibrio tra la cooperativa e la base sociale, e le persone hanno iniziato a volermi bene, tanto che nel 2018 mi hanno nominato vicepresidente e nel 2021 presidente della cooperativa.

uomo mostra targa celebrativa in legno

Cosa provi nell’essere il presidente di Cape?
Tanto senso di responsabilità. Responsabilità per le tante famiglie che dipendono da questo lavoro e per i ragazzi e le ragazze che lavorano qui come dipendenti. Io parto alle 5 del mattina col camion, alle 12 rientro e al pomeriggio vengo qui in ufficio per aiutare. Di recente abbiamo assunto personale molto giovane, appena uscito dalla scuola. Io credo in loro e stanno dimostrando di essere all’altezza della responsabilità che gli abbiamo dato. È un team affiatato e pieno di entusiasmo che aiuta la cooperativa a guardare avanti. La nostra impresa va bene. E io sono orgoglioso di quello che stiamo costruendo. 

Qual è la cosa che ti piace di più del tuo lavoro?
Sembrerà stupido ma la cosa che mi piace di più è risolvere i problemi degli altri. È una roba inspiegabile. Ne potrei fare a meno, sarebbe un lavoro più semplice. Ma non ci riesco. Se vengo a conoscenza di una persona della cooperativa che ha un problema la chiamo e cerco di capire se c’è bisogno. Le domando “Hai fatto? Hai risolto? C’è bisogno?”. A me non l’ha mai chiesto nessuno. Mi sarebbe piaciuto che fosse successo.

“Io sono grato al mondo della cooperazione. Ci credo. Se non ci avessi creduto non sarei qui oggi.”

Cosa pensi della cooperazione?
Che è una bella cosa, davvero. Insieme si diventa una potenza. Da solo non fai niente, insieme si può fare molto, si diventa competitivi, si può lavorare con aziende più grandi e importanti. Io sono grato al mondo della cooperazione. Ci credo. Se non ci avessi creduto non sarei qui oggi.

camion di notte

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