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L’integrazione in Italia oggi. Cosa sono i Cas

I Cas sono i Centri di Accoglienza Straordinaria delle persone richiedenti asilo. Ce ne parla Richard Messou della cooperativa DiaLogos di Forlì

I Cas sono i Centri di accoglienza straordinaria per le persone straniere che arrivano nel nostro Paese senza permesso di soggiorno. Sono previsti dal governo, regolati dalle Prefetture e dati in gestione a enti pubblici o privati, come le cooperative sociali. Nella provincia di Forlì-Cesena la cooperativa DiaLogos accoglie circa 100 persone in 11 Cas dislocati sul territorio di Forlì-Cesena e coordinati da Richard Messou. 

Richard, come funzionano i Cas?
Da quando sono stati istituiti a oggi sono cambiati molto sia nell’organizzazione che nella definizione. Oggi nei Cas vengono inviate dalle Prefetture le persone che arrivano in Italia senza un permesso di soggiorno e che fanno richiesta di protezione internazionale. Vengono ospitate finché la Commissione che esamina le loro domande non riconosce loro lo status di rifugiato o di protezione. Il periodo di permanenza in un Cas è quindi molto variabile, possono essere 6 mesi o anche molto di più.

Cosa si fa nei Cas?
Le persone vengono accolte e ospitate. Le si aiuta in tutto il loro iter burocratico di preparazione delle domande da presentare alla Commissione e negli adempimenti sanitari. Negli anni le cose che si possono fare sono cambiate tanto, spesso in peggio. All’inizio si poteva lavorare sull’integrazione, con corsi di italiano e di orientamento. Oggi siamo in un momento di stallo burocratico. Con la legge in vigore è prevista ancora qualche azione di integrazione, come l’insegnamento della lingua italiana, ma il nuovo decreto Cutro prevede che nei Cas vengano erogati solo vitto, alloggio e assistenza sanitaria. 

credit photo Vito Manzari

Come avete reagito a questo cambiamento?
La direzione della cooperativa al momento è di cercare risorse alternative, sfruttando la rete che abbiamo con altre cooperative e imprese del territorio, per continuare a proporre servizi di integrazione che per noi sono fondamentali nei percorsi di accoglienza. Altrimenti si tratterebbe solo di ‘parcheggiare’ delle persone per mesi e mesi e si perderebbe tutto il senso di quello che stiamo facendo.

Chi si trova al Cas può lavorare?
Sì. Può farlo dopo 60 giorni dal momento in cui presenta la domanda di protezione internazionale in questura, domanda che poi viene rivolta alla Commissione territoriale . In quell’occasione viene rilasciato un documento che dà il diritto di lavorare. Il problema è che non si deve superare la soglia dell’assegno minimo sociale, attualmente di 6500 euro annui, altrimenti si deve andare via dal Cas anche se non si ha il verdetto della Commissione, non si parla italiano e non si ha una casa dove andare.

Dopo che la Commissione si esprime cosa succede?
Chi non ottiene lo status di rifugiato o di protezione può fare ricorso presso il tribunale competente tramite un avvocato. Se alla fine di questo iter viene sancito che non ci sono i requisiti per una protezione internazionale, il richiedente deve lasciare il territorio. Chi, invece, ottiene la protezione internazionale deve andare via dal Cas e iniziare un nuovo percorso. Se non si ha un lavoro da più di 6500 euro di reddito annui si può entrare nella rete Sai – il Sistema di Accoglienza e integrazione, dove si ha un alloggio e vengono erogati servizi di integrazione.

Come sono cambiate le persone che accogliete nei Cas in questi anni?
Le persone cambiano moltissimo a seconda delle guerre, dei fattori economici e politici e dell’andamento climatico. In molti si muovono poi anche solo per migliorare la propria condizione sociale. Le ragioni sono tante e diverse. Parlando di nazionalità abbiamo assistito a un cambiamento notevole: nei primi anni di accoglienza c’erano soprattutto persone provenienti dall’Africa, in particolare Nigeria con il 90% delle provenienze (oggi al 5%), Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, ecc; oggi provengono per lo più dall’Asia, in particolare Pakistan, Bangladesh, Afghanistan.

Sono giovani?
Sì. La media è di 22-24 anni. Arrivano uomini, donne, minori, e anche nuclei familiari. 

Anche tu sei stato un migrante, parlaci di te, come sei arrivato in Italia?
Sono originario della Costa d’Avorio, sono arrivato in Italia più di 20 anni fa, all’età di 16 anni, per ricongiungimento familiare: mio padre si trovava in Italia da diverso tempo e io l’ho raggiunto con il resto della famiglia qui a Forlì, dove vivo tuttora con mia moglie e i miei due figli. 

credit photo Irish Defence Forces

Qual è stato il tuo percorso prima di arrivare nella cooperativa DiaLogos?
Appena arrivato ho scelto di frequentare il liceo scientifico nonostante mi dicessero che fosse una scuola difficile. Ho fatto diversi corsi di potenziamento della lingua e in sei mesi parlavo e capivo bene l’italiano. Una volta presa la maturità mi sono iscritto all’università, nella facoltà di agraria perché da bambino volevo fare l’agronomo. Ho preso la triennale e poi mi sono iscritto alla specialistica, ma quando ero ormai alla fine, con pochi esami e la tesi, ho abbandonato gli studi perché avevo capito che la mia strada era un’altra.

Quale?
Fin da subito ho creato insieme ad altri ragazzi e ragazze l’associazione Giovani stranieri di Forlì. L’avevamo creata per restare coesi e per darci un’identità. All’interno del gruppo c’erano persone attive in diversi campi, a me affascinava molto il tema dell’immigrazione. Preso il diploma ho partecipato alla prima edizione del Servizio civile universale dedicato ai giovani stranieri, mentre studiavo per l’università. Mi ero detto “vediamo se riesco a combinare qualcosa con la parte sociale che c’è in me”.

È lì che ti sei avvicinato alla cooperazione?
Sì, esatto. Ho iniziato a collaborare con due realtà del territorio forlivese  che si occupavano di migrazione, Sesamo e Spazi Mediani, che successivamente si sono fuse nella cooperativa DiaLogos. Il mio ruolo era affiancare gli operatori del Centro per gli stranieri, l’ufficio comunale che assiste le persone migranti nei loro iter burocratici e di integrazione. Dopo il Servizio civile ho continuato a collaborare con loro come mediatore occasionale e a un certo punto ho capito che era quella la mia strada. Così ho lasciato l’università e fatto un corso di qualifica come mediatore. 

Richard Messou

Cosa ti piace della mediazione?
Essere d’aiuto a chi ha vissuto il mio stesso viaggio, anche se i percorsi e i vissuti di ciascuno sono sempre molto diversi e personali. Chi arriva qui da un Paese straniero ha bisogno di un aiuto per orientarsi, per capire la lingua e per cercare percorsi utili per lui o per lei. 

Cosa vuol dire essere socio della cooperativa per te?
Vuol dire condividere la visione e la politica della cooperativa. Siamo un gruppo di persone che condividono gli stessi valori e lavorano per portarli avanti. Inoltre significa poter contare su un’equipe. Il nostro lavoro ci impone dei ritmi accelerati, le nostre strutture vanno seguite 24 ore su 24 tutti i giorni della settimana, ma in cooperativa abbiamo lavorato molto sulla conciliazione dei tempi di vita e siamo in grado di venire incontro alle esigenze di ciascuno. Si lavora bene e l’ambiente che abbiamo creato aiuta molto. Ci sono tutti i requisiti per lavorare in serenità.

A livello emotivo riesci a staccare dal tuo lavoro quando vai a casa?
Non sempre si riesce, ma come cooperativa abbiamo lavorato molto anche su questo, con corsi di formazione dedicati. Ci sono storie e persone che ti toccano molto da vicino e che lasciano il segno. Ma piano piano impari a prendere le giuste distanze e a restare equilibrato. 

Foto in copertina: ©️ Irish Defence Forces

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